CULTURA E EVENTI

Sant’Antonio Abate e San Francesco D’Assisi, un monito di rispetto verso gli animali

La festa di Sant’Antonio Abate ricorre proprio oggi – venerdì 17 gennaio, anno della sua morte nel deserto della Tebaide nel 257 – e la leggenda vuole che nella notte gli animali siano d’un tratto capaci di parlare.

Ma è anche questo giorno a scandire il tempo tra le semine e i raccolti in agricoltura, in base alla sapienziale tradizione contadina.

Ma chi era Sant’Antonio Abate? Era un abate ed eremita egiziano, nato a Coma, l’odierna Qumans, intorno al 251, figlio di agiati agricoltori cristiani; è il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati.

Di solito, nelle iconografie, viene raffigurato con accanto un maialino che reca al collo una campanella ed è per questo che, in alcuni casi, in occasione delle celebrazioni in onore del Santo, i festeggiamenti comprendono anche una benedizione degli animali, quest’ultima di origine medievale.

Ma perché il culto è associato all’allevamento degli animali? Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.

In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.

Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli “Antoniani”; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.

Il Papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.

Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.

Nella sua iconografia, inoltre, compare, oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.

Ma se solo fosse vero che i nostri animali acquistassero davvero solo per una notte la facoltà di parlare, chissà quali frasi ci rivolgerebbero e cosa ci racconterebbero delle loro vite.

In passato, durante la notte degli animali parlanti, i contadini si tenevano lontani dalle stalle, perché udire gli animali conversare era segno di cattivo auspicio.

Ma forse, alla luce delle torture e delle ingiustizie che quotidianamente ancora essi sono costretti a subire per mano dell’uomo, più che la parola, essi avrebbero bisogno di diritti, oltre che ad una più spiccata sensibilità verso queste creature innocenti.

D’altra parte, se pensiamo a San Francesco D’Assisi, in tutti i suoi racconti, nelle sue preghiere sono presenti gli animali come pesci, agnelli, uccelli e soprattutto il lupo; la leggenda più conosciuta è legata al lupo che terrorizzava la città di Gubbio.

Si narra che Francesco riuscì a parlare con il lupo, domando la sua ferocia e facendo tornare la pace nel paese. Dunque, come Sant’Antonio e San Francesco, sarebbe auspicabile per noi tutti essere in grado di compiere esempi di rispetto incondizionato verso tutte le specie viventi. 

 

di Michela Castelluccio

 

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