CRONACA

Sanità accreditata, tavolo Pittella per Melfi: spiraglio o vicolo cieco?

Il 29 dicembre arriva una convocazione: “tavolo di confronto”, destinatari le associazioni della sanità accreditata, sede istituzionale. Bene. Ma attenzione: in Basilicata non siamo più nella fase delle parole.

Siamo nella fase in cui o si cambia metodo, o si certifica che il diritto alla cura può essere trattato come una pratica da ufficio, con scadenze e ricatti.

Il Presidente Pittella ha scelto di allargare il confronto: è un passaggio che può essere serio, perché riconosce un fatto che chi vive la sanità sul campo vede da tempo: la vertenza Polimedica è la punta dell’iceberg di una frattura più ampia, che riguarda programmazione, riparti, tetti, e il modo in cui si decide dove i lucani possono curarsi e dove, invece, devono arrangiarsi o rinunciare.

Ma mentre si convoca il tavolo, la realtà sul territorio resta inchiodata a una contraddizione che non può essere nascosta sotto la moquette istituzionale: l’ultimatum dell’ASP è ancora lì.

Il contratto capestro è ancora lì, non sospeso, non riconsiderato, non corretto. E allora bisogna dirlo senza giri di parole: un tavolo di confronto che nasce mentre fuori continua un ultimatum non è gestibile, rischia la farsa o la tragedia.

Perché qui non si tratta di “definire un’intesa” tra uffici: qui si pretende che una struttura sanitaria scelga come soccombere.

O firmare un contratto che, per come viene scritto e denunciato, contiene clausole che pretendono di azzerare le tutele costituzionali e trasformare un rapporto pubblico in una resa privata.

Oppure non firmare e rischiare l’uscita dal SSN, con l’azzeramento dell’offerta convenzionata e il trasferimento del peso sulle spalle dei cittadini. In entrambi i casi, l’effetto è lo stesso: restringere l’accesso alle cure.

E mentre i documenti girano tra scrivanie e PEC, nel mondo reale la conseguenza è una sola: più liste d’attesa, più rinunce, più viaggi, più spesa di tasca propria.

Sempre sugli stessi: anziani, cronici, fragili, oncologici, famiglie già stremate. È a loro che si sta chiedendo di pagare il prezzo di scelte che non seguono i reali fabbisogni, ma gli equilibri e le posizioni di rendita.

Nel frattempo, il Sindaco di Melfi attende ancora un riscontro formale alla richiesta inviata al Presidente Bardi e all’Assessore Latronico. Questo silenzio non è “prudenza”: è un messaggio.

E il messaggio è molto brutto: che i territori possono aspettare, che le comunità possono accomodarsi, che le istituzioni possono osservare senza decidere.

Qui non parliamo di colori politici: parliamo di responsabilità istituzionale. Se il Sindaco della terza città della Basilicata chiede un confronto ufficiale per scongiurare rinunce alle cure e tensioni sociali, il silenzio non è neutro: pesa, delude, alimenta sfiducia e aumenta la tensione pubblica.

Perché quando le istituzioni tacciono, a parlare sono le conseguenze: appuntamenti che slittano, visite che saltano, diagnosi che arrivano tardi. E in sanità questo non è un semplice “disservizio”: è sofferenza, è ansia, talvolta è danno irreparabile.

Ecco il punto: la convocazione “dice poco”, ma pesa molto. Perché o diventa un vero tavolo — con dati, criteri, documenti, verbali pubblici, impegni verificabili — oppure diventa il classico vicolo cieco: un contenitore in cui far sfogare la tensione mentre fuori la pressione continua. Un tavolo serio non convive con ultimatum e contratti-capestro. Chiede di sospenderli. Di rivederli. Di correggerli.

Per questo l’USC entra in una seconda fase: mobilitazione, coinvolgimento dei Sindaci, crescita delle adesioni, pressione civile. Non per “fare rumore”, ma per impedire che l’emergenza venga normalizzata e che la sanità diventi una lotteria territoriale. Il fuoco civico non si spegnerà finché non ci sarà un confronto vero, pubblico e trasparente.

E ora la domanda è rivolta al Presidente Bardi: vuole guidare la soluzione o inseguire l’emergenza? Vuole assumere la responsabilità politica di un metodo trasparente e verificabile, o lasciare che a decidere siano ultimatum amministrativi e silenzi istituzionali?

C’è anche un punto che la Basilicata non può permettersi di dimenticare: qui parliamo soprattutto di territori, dove la distanza pesa, la mobilità è più difficile e una visita saltata non è un fastidio, ma una rinuncia. Il diritto alla cura non è una concessione: è un livello essenziale di garanzia — nei LEA e, più in generale, nei LEP — che deve valere allo stesso modo a Potenza come a Melfi, nei capoluoghi come nei territori più periferici.

Se si lascia che l’offerta si impoverisca proprio dove è più fragile, allora non è solo una vertenza: è una frattura istituzionale. E quella frattura va ricomposta con trasparenza, dati e responsabilità, non con ultimatum.

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