Nel museo “Paul Russotto” di Aliano una monografia ricostruisce la storia del pittore di New York

Venerdì 27 giugno, alle ore 18.00, ad Aliano, nel salone centrale del museo a lui dedicato nel 2017, verrà presentata la monografia “Paul Russotto.
Opere/Works 1956-2012” appena uscita per Silvana Editoriale e curata da Giuseppe Appella che ha seguito da sempre il lavoro dell’artista e ha selezionato le opere che oggi lo rappresentano nel Museo.
Interverranno, coordinati dalla giornalista Beatrice Volpe, oltre allo stesso Appella, il sindaco di Aliano Luigi De Lorenzo, il presidente del Parco Letterario Carlo Levi Antonio Colaiacovo, il figlio dell’artista Luca Russotto, lo storico dell’arte Antonello Tolve, e la direttrice generale dell’APT Basilicata Margherita Sarli.
A saperla leggere, la storia di Paul Russotto è tutta nella sua biografia. La nascita a New York, da genitori di origine siciliana e lucana, il trasferimento a Huntington, situata nella parte centrale di Long Island, l’iscrizione alla “Walt Whitman High School” prima e all’Art Students League di New York poi, dove ha come maestri Frank Mason per la pittura e Raymond Breinin per il disegno, le lunghe soste nei musei, il periodo trascorso a Hoboken, in New Jersey, il trasferimento a St. James, la permanenza ad Albany, il rientro a New York nel 1976, l’intenso e continuo studio di Cézanne (la struttura dei piani in rapporto con il colore) e di Picasso (la sovrapposizione delle immagini che, ripercorrendo a ritroso i secoli, arrivano direttamente alla caverna delle prime linee-esperienze di Paul), l’amicizia con il solitario e silenzioso George Spaventa, sono le coordinate di una pittura che non ha mai rinunciato alla figura, proprio come Dubuffet, Bacon e De Kooning.
E, come loro, ha lottato per non precipitare nello stile, in quel sistema che stritola talento e ispirazione coprendoli col manto dell’accademia. Anche quando disegna, riempiendo taccuini su taccuini, o dipinge, con assoluta dedizione e una progressiva maturata competenza, gli oggetti, le persone, le macchine e le architetture che lo circondano.
Una sorta di autobiografia e di omaggio a quanti lo hanno aiutato a crescere, a leggere in se stesso attraverso l’arte, soprattutto il disegno, che in ogni occasione l’ha salvato dalla solitudine.
Non è un caso se in un taccuino del 1966, in un piccolo inchiostro di cm 6,5×6,5, si approccia a Franz Kline scomparso quattro anni prima e si rende definitivamente conto di poter fare una cosa veramente significativa anche senza il rimando alla riconoscibilità della realtà che lo circonda e che ogni suo lavoro è il risultato di uno studio intenso e spontaneo ma sempre consapevole.
Il carboncino, la matita, il pastello, l’inchiostro, e il collage che li completa, saranno fondamentali per tutti i tracciati e le formulazioni visive utili a seguire il progresso del pensiero nella lettura della realtà circostante e nella comunicazione di questa esperienza.
Quasi a voler confermare la lezione di Kline: “La pittura è una forma di disegno e la pittura che mi piace ha in sé una forma di disegno. Non vedo come potrebbe essere separata dalla natura del disegno”.
A lungo, negli anni, anche dopo il trasferimento a Todi dove si accentua il confronto con Ellen, studiosa dell’espressionismo astratto americano, e con Alan Jones, spesso di passaggio nella campagna todina, con la storica dell’arte americana Barbara Novak e suo marito Brian O’ Doherty impegnato a dipingere in toto la sua casa nel centro storico inseguendo l’impegno di Henri Matisse a Saint-Paul-de-Vence e di Mark Rothko a Houston, con il fotografo George Tatge, con Gabriella Drudi e Toti Scialoja nello studio di quest’ultimo in piazza Mattei a Roma dove avevano sostato tutti i pittori della Scuola di New York, si è discusso delle immagini dipinte da Russotto, di questo fantasma fatto presenza e viceversa, di questa icona vilipesa, travolta dal vortice della pennellata o dello strappo eppure consegnata alla riservatezza, alla severità della disciplina e del rigore.
Era che Russotto identificava l’arte con la vita, con la certezza che gli dava un modo tutto suo di esistere, di affidare al gesto la genesi dell’arte, dove gesto e strappo sono anche gioia di vivere, follia, religiosità, coscienza, istinto, grazia.
Come a dire: la luminosità di Long Island della prima infanzia legata ai ricordi ancestrali dei genitori (il vecchio mondo) trasmigrata nel mito romantico dell’America (il nuovo mondo), la sottile vena sorgiva della poesia incanalata nel cuore delle differenze etniche, l’interiorità trasferita nella struttura del grattacielo, la dolcezza della campagna umbra nell’aspro aprirsi dei calanchi e nella vastità senza tempo della Murgia materana, per assumerne i colori e basta.
Una forma libera, dunque, un evento sempre al centro del proprio essere, non una sigla o una definizione, riferito alla realtà mutevole del giorno e delle stagioni, all’eterna lotta tra la vita e la morte, all’espressione variabile dell’uomo che il grumo di materia assorbe e deflagra sulla superficie luminosa con vibrazioni di particelle, organismi formicolanti di situazioni umane, sogni primordiali, vorticosi, pieni, che è l’emozione fatta poesia.