CULTURA E EVENTI

A Terranova di Pollino, grande interesse per La matta di Piazza Giudia

Terranova di Pollino, sabato 9 agosto — Si è tenuta presso la sala consiliare del Comune la presentazione del libro La matta di Piazza Giudia di Gaetano Petraglia, opera che restituisce voce e dignità a Elena di Porto, figura emblematica della resistenza ebraica romana, deportata ad Auschwitz.

L’incontro, inserito nel cartellone degli eventi estivi del Comune, ha offerto al pubblico una riflessione profonda sulla memoria storica e sul ruolo della Basilicata come terra di confino durante il fascismo. Petraglia, direttore dell’Archivio di Stato di Viterbo, ha raccontato la vicenda di Elena di Porto, donna coraggiosa e ribelle, internata in Lucania prima della deportazione.

Il piccolo borgo lucano, uno dei 200 paesi individuati dal regime fascista tra quelli destinati a ospitare campi di lavoro e confino, ha accolto l’autore in un evento partecipato e sentito. A moderare i lavori è stato il consigliere comunale con delega alla cultura, Luigi Todaro, che ha dialogato con l’autore Gaetano Petraglia, guidando il confronto con gli altri ospiti intervenuti: il sindaco di Terranova di Pollino, Franco Mazzia; la ricercatrice Rossana Tufaro; il giornalista Mario Golia; e il vicepresidente del Consiglio regionale della Basilicata, Angelo Chiorazzo. Ciascuno ha offerto una riflessione sul valore della memoria, sull’attualità della figura di Elena di Porto e sul ruolo dei piccoli comuni lucani nella storia della resistenza civile.

In occasione della presentazione, l’autore ha raccontato la genesi della sua ricerca e il valore umano e storico della figura di Elena di Porto. Ecco le sue parole:

“La storia l’ho scoperta, diciamo, per caso. Circa dodici o tredici anni fa stavo svolgendo un lavoro d’archivio presso il Comune di Lagonegro. Cercavo dei fascicoli sull’immigrazione lucana nel mondo, quindi su un argomento che poi non è attinente a Elena di Porto. Però, durante quella ricerca, scoprii dei fascicoli su alcuni ebrei che erano stati mandati al confino a Lagonegro. Tra questi c’era un fascicolo, peraltro l’unico intestato a una donna: era un’ebrea, ed era proprio Elena di Porto.
Da lì mi sono incuriosito. Aprendo il fascicolo—che conteneva poche carte—mi resi subito conto che era una storia interessante da approfondire. Visto che già lavoravo a Roma, ho continuato la ricerca lì, e ho deciso di seguire tutto il percorso anche in Basilicata, legato a questa persona, Elena di Porto.
Una volta ricostruita tutta la storia, mi sono trovato davanti a una figura molto interessante. Innanzitutto, si trattava di una donna fuori dal comune per carattere: molto combattiva, anche irruente nei modi. Ma soprattutto era una donna fuori dal tempo, lontanissima dai canoni femminili dell’epoca. Non era la donna come la voleva il regime fascista—madre, moglie. Era tutt’altro.
Un’altra cosa che mi ha colpito è che i documenti parlano della sua presenza in tanti momenti chiave della storia degli ebrei romani e italiani nel periodo fascista. Fino al 1943, quando fu presa e deportata ad Auschwitz. In ogni snodo di quella storia c’è Elena di Porto. Sicuramente una figura da rivalutare, che era quasi dimenticata.
Per ricostruire la sua storia, mi sono mosso su due binari. Da archivista, la prima cosa è stata ovviamente cercare i documenti. Ho visitato molti archivi e trovato molte attestazioni. Ma essendo una storia che si è tramandata anche per via orale—prima nella famiglia, poi tra amici, e infine nella comunità ebraica romana—le testimonianze sono state fondamentali.
Gli storici spesso tendono a tralasciarle, perché le testimonianze sono soggette alla fantasia di chi le racconta. Però, vagliandole con attenzione e incrociandole con i documenti, dove questi non arrivavano, le testimonianze mi hanno aiutato a ricostruire determinati aspetti. Quindi, grazie a questi due binari—documenti e testimonianze—sono riuscito a ricostruire praticamente tutta la storia.
Per quanto riguarda gli internati come Elena di Porto nei piccoli paesi lucani, per quella che è la mia esperienza, anche su altri fascicoli, posso dire che—nonostante i rapporti con la popolazione locale fossero espressamente proibiti dalle autorità fasciste, sia centrali che locali (podestà, segretari del fascio, ecc.) —questi internati ebbero sempre rapporti diretti con la popolazione.
Quasi sempre venivano ospitati nelle famiglie, che ricevevano un piccolo contributo per tenerli in casa. Anche se dovevano essere sotto controllo, in realtà non era così. Ancora oggi, per esempio a Gallicchio, i pronipoti della signora che ospitò Elena di Porto la ricordano come una persona quasi di famiglia.
Ci furono rapporti stretti. Elena di Porto, come tanti altri—ricordo Carlo Levi ad Aliano—sperimentò un tratto unico della popolazione lucana: l’ospitalità. Furono ospitati, protetti, nascosti, considerati membri della famiglia.
Quella ospitalità, che ancora oggi siamo capaci di dare a quelli che chiamiamo “forestieri”, è forse ciò che rimane davvero di questa storia. La voglia, il carattere buono dei lucani nei confronti di chi, loro per primi, capivano essere vessati e sottoposti all’oppressione.”
L’iniziativa ha rappresentato un momento di riflessione profonda sulla memoria, sull’identità lucana e sul valore della solidarietà. La figura di Elena di Porto, riscoperta grazie al lavoro di Petraglia, torna oggi a parlare al presente, come simbolo di resistenza e umanità.

 

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